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Coronavirus come è arrivato in Europa? (Fonte: Il Sole 24ore)

Il coronavirus Sars-Cov-2 è entrato in Europa più volte e il primo focolaio potrebbe essere quello isolato in gennaio in Germania, a Monaco. Lo indica la mappa genetica pubblicata sul sito Netxstrain, uno sforzo open source per “sfruttare il potenziale scientifico e di salute pubblica dei dati del genoma patogeno”, fondato e diretto dal gruppo guidato da Trevor Bedford, del Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle.

Ed è la prima volta dallo scoppio di un’epidemia che, attraverso la immediata pubblicazione dei dati degli scienziati, si riescono a monitorate in modo così dettagliato e quasi in tempo reale l’evoluzione e la diffusione di un germe.

La mappa, che ricostruisce una sorta di albero genealogico del virus, suggerisce dunque che il focolaio tedesco potrebbe aver alimentato silenziosamente la catena di contagi al punto da essere collegato a molti casi in Europa e in Italia.

In pratica, tracciando le mutazioni del virus mentre si diffonde, gli scienziati cercano di individuare il modo attraverso il quale l’infezione “salta” tra i diversi paesi. Ma il materiale genetico virale oltre a raccontare la storia sull’origine del virus, offre informazione anche su come si è diffuso e se gli sforzi per contenerlo siano efficaci o meno.

Man mano che un virus si diffonde, muta, sviluppando cambiamenti casuali in singole lettere genetiche nel suo Rna. Tracciando questi cambiamenti, gli scienziati possono rintracciarne l’evoluzione e capire quali casi sono più strettamente correlati.

5 marzo 2020

mappa genetica
Brasile
Brasile In
Cina
Corea
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E le ultime mappe mostrano già dozzine di eventi di ramificazione. Come dice la virologa Ilaria Capua, direttrice del centro “One Health” dell’università della Florida, sulla base delle oltre 150 sequenze genetiche dei coronavirus finora pubblicate: «Va sfatato il mito che l’Italia abbia diffuso il virus. A partire dall’epicentro dell’epidemia, in Cina, il coronavirus ha seguito tra vie per diffondersi nel resto del mondo: una diretta in Europa, una verso gli Stati Uniti e la terza verso Sud, verso Corea e Australia».

La ricerca in Brasile
In Brasile i ricercatori attraverso i dati genetici hanno dimostrato che il loro primo caso, e un secondo riscontrato in seguito, non erano strettamente correlati, fa sapere Nuno Faria dell’Università di Oxford, che ha seguito il monitoraggio in tempo reale anche del virus Zika.

«I campioni di virus dei due pazienti presentano delle differenze sufficienti per dire che il contagio è avvenuto in luoghi diversi – ha scritto su Twitter Faria -. Risultati confermati anche dalle informazioni di viaggio dei due pazienti.

In assenza di un vaccino, per gli esperti la possibilità di limitare al massimo il contagio è quella di adottare misure restrittive di contenimento, individuando e isolando le persone che sono state esposte al virus. Ed è qui che l’albero evolutivo del virus è utile, perchè aiuta a tracciare la diffusione del virus, a rilevare dove si trova e se le misure di contenimento funzionano.

L’evoluzione in Italia
Anche nel in Italia è stato avviato uno studio epidemiologico in questo senso. L’Università di Padova con l’aiuto della Regione Veneto e della Croce Rossa ha proposto un’indagine scientifica su tutti i 3.300 cittadini di Vo’ Euganeo, a cui verrà rifatto il tampone, a un ritmo di fino a 1000 al giorno, e che dovrebbe concludersi domenica. I nuovi dati serviranno per valutare l’evoluzione del virus, a definire i parametri numerici relativi ai numerosi aspetti dell’infezione, tra cui quello sulla storia naturale del virus, le dinamiche di trasmissione e le classi di rischio stratificate per morbilità e mortalità.

Lo studio, finanziato dalla Regione Veneto con 150mila euro, prenderà in esame nuovamente la situazione dei residenti di Vò: «una comunità – spiega Andrea Crisanti, alla guida del dipartimento di Medicina molecolare dell’Università di Padova – di cui si conosce tutto, anche la sintomatologia di ognuno, e per questo è un modello ideale per lo studio, per delineare il tasso di guarigione».

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L’Istituto superiore di sanità «verso la sperimentazione del farmaco per l’artrite usato a Napoli

«In queste ore Aifa ha riunito il comitato tecnico scientifico, si stanno analizzando le evidenze disponibili rispetto ai principi attivi e credo stia deliberando la possibilità di avviare una sperimentazione per meglio comprendere». Lo ha detto il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro in conferenza stampa alla protezione civile sul farmaco per l’artrite reumatoide utilizzato in forma sperimentale a Napoli contro il coronavirus.

Da sabato abbiamo trattato 6 pazienti tutti intubati. Di questi, 3 hanno avuto un miglioramento importante. Il primo paziente ha evidenziato segni di miglioramenti alla TAC di controllo effettuata ieri sera». Così si era espresso oggi Paolo Ascierto, direttore dell’unità di immunologia clinica del Pascale, facendo il punto della situazione sull’uso all’ospedale Cotugno di Napoli del Tolicizumab, l’anticorpo monoclonale utilizzato per il trattamento dell’artrite reumatoide sulla polmonite indotta dal coronavirus.

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Coronavirus, un farmaco ha funzionato su due pazienti a Napoli (Fonte Il Messaggero)

Grazie ad una collaborazione tra l’Azienda Ospedaliera dei Colli e Istituto Nazionale Tumori Irccs Fondazione Pascale, due pazienti affetti da polmonite severa Covid 19 e ricoverati all’ospedale Cotugno, sono stati trattati con Tocilizumab, un farmaco che viene solitamente utilizzato nella cura dell’artrite reumatoide ed è farmaco di elezione nel trattamento della sindrome da rilascio citochimica dopo trattamento con le cellule CAR-T.

La somministrazione, avvenuta nella giornata di ieri ed avviata per la prima volta in Italia, è stata possibile grazie a una stretta collaborazione tra il direttore della Uoc di Oncologia dell’Azienda Ospedaliera dei Colli, Vincenzo Montesarchio; il direttore dell’Unità di Oncologia Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative dell’Istituto «Pascale» di Napoli, Paolo Ascierto insieme al virologo Franco Buonaguro e alcuni medici cinesi, tra cui Wei Haiming Ming del First Affiliated Hospital of University of Science and Technology of China e il team composto da tutto il personale del Cotugno e che ha visto in prima linea, tra gli altri, Rodolfo Punzi, direttore del dipartimento di Malattie infettive e urgenze infettivologiche; Roberto Parrella, direttore della Uoc Malattie infettive ad indirizzo respiratorio; Fiorentino Fragranza, direttore della Uoc Anestesia rianimazione e terapia intensiva; Vincenzo Sangiovanni, direttore della Uoc Infezioni sistemiche e dell’immunodepresso; Nicola Maturo, responsabile del Pronto Soccorso infettivologico del Cotugno e Luigi Atripaldi, direttore del laboratorio di Microbiologie e virologia.

«Già a distanza di 24 ore dall’infusione, sono stati evidenziati incoraggianti miglioramenti soprattutto in uno dei due pazienti, che presentava un quadro clinico più severo» spiegano Montesarchio e Ascierto. «Nell’esperienza cinese – aggiungono – sono stati 21 i pazienti trattati che hanno mostrato un miglioramento importante già nelle prime 24-48 ore dal trattamento, che si effettua con un’unica somministrazione e che agisce senza interferire con il protocollo terapeutico a base di farmaci antivirali utilizzati». Il farmaco è in fase di sperimentazione clinica in 14 ospedali di Wuhan.